
Da oltre dieci anni l’Università di Pisa, in collaborazione con quelle di Camerino e Milano-Bicocca e con diverse istituzioni peruviane ed europee, conduce ricerche nel deserto costiero del Perù meridionale: una delle aree più ricche al mondo di fossili di cetacei, squali, uccelli e rettili marini. Gli scheletri di questi vertebrati affiorano dalla sabbia del deserto eccezionalmente conservati e spesso ancora perfettamente articolati. I sedimenti che li racchiudono si sono depositati nel corso di milioni di anni su un antico fondale marino, poi emerso a seguito degli intensi movimenti della crosta terrestre che interessano il versante occidentale della catena Andina. “Uno dei nostri obiettivi - afferma Giovanni Bianucci, professore di paleontologia presso il dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Pisa e coordinatore delle ricerche in Perù - è quello di ricostruire, grazie allo studio dei fossili, l’intera fauna che visse in questi mari. Tuttavia non vogliamo limitarci a dare un nome agli animali ma, sopratutto, capire come interagivano tra loro, di cosa si nutrivano e come si sono evoluti nel corso dei milioni di anni”.
In questo tipo di studi, non sono sempre i reperti fossili più completi e spettacolari a fornire i dati più interessanti e inaspettati, ed è infatti su alcune ossa frammentarie, risalenti a circa 7 milioni di anni fa, che i ricercatori pisani e i loro colleghi hanno scoperto le lunghe incisioni lasciate dal morso di un grande squalo.
“L’approfondita analisi e lo studio di queste tracce - spiega Alberto Collareta, dottorando presso il dipartimento di Scienze della Terra di Pisa e responsabile dello studio pubblicato nella rivista internazionale “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology” - hanno permesso di identificare sia gli animali 'morsicati' che il responsabile del morso. I primi sono rappresentati da foche e cetacei (fra cui la Piscobalaena nana, una balena di piccola taglia appartenente alla famiglia oggi estinta dei Cetotheriidae), mentre il loro predatore è ragionevolmente identificabile in Carcharocles megalodon, i cui denti sono gli unici che, per forma e dimensioni, possono aver prodotto le tracce osservate.

Se facciamo un parallelo con le abitudini alimentari dello squalo bianco, considerato un analogo moderno e 'miniaturizzato' del Carcharocles megalodon, possiamo ragionevolmente ipotizzare che questo gigantesco squalo estinto avesse una dieta ampia e diversificata che, pur comprendendo pesci e molluschi era comunque incentrata sui mammiferi marini di media taglia (foche e cetacei). Al contrario, l'ipotesi secondo cui C. megalodon era un attivo predatore di grandi balene non appare adeguatamente supportata dai dati attualistici. È anche possibile ipotizzare che l’estinzione delle balene di piccole dimensioni, fra cui i Cetotheriidae, intorno ai 3 milioni di anni fa (cioè alla fine del Pliocene) abbia privato questo grande predatore delle sue prede predilette, favorendone l’estinzione”.
“Il nostro studio - conclude Bianucci - non solo contribuisce a conoscere la biologia del più grande squalo mai esistito, ma anche a chiarire le dinamiche evolutive che hanno portato ai grandi cambiamenti nella fauna marina, spesso legati al rompersi di delicati equilibri tra prede e predatori, fino alla messa in posto della fauna attuale”.